“Nulla è più esasperante della rivelazione della propria passata stupidità (…) ho speso il resto della vita per ritrovare, grazie a un improbabile girotondo, una qualche forma di spiritualità”
I Fratelli di Plymouth sono una setta puritana e radicale che rifiuta in toto la modernità. Niente televisori, radio o giradischi a casa. Niente “piaceri” mondani, come andare a un concerto, al teatro o partecipare a eventi sportivi. Per l’adolescente figlio di Martin Follett è uno strazio, a differenza degli altri suoi coetanei del quartiere non può nemmeno fregiarsi del titolo di “lupetto” nel club locale degli scout. Ogni domenica, invece, per tre volte, insieme alla sua famiglia deve indossare l’abito migliore, uscire di casa portando con sé la Bibbia e camminare fino alla “sala” destinata agli “incontri” dell’“assemblea”. Arrivato a sedici anni, comincia la ribellione, costruita intorno ai film, ai primi libri come gli atlanti, alla chiatarra non usata per suonare inni sacri. Ma è l’università il vero trampolino del giovane Follett per tuffarsi in un mondo diverso, dove la filosofia in primis mette in dubbio tutte le credenze inculcategli fin da bambino.
Il grande Ken Follett, a distanza di oltre mezzo secolo dall’abbandono di quella congregazione, è uno scrittore di successo e un ateo non praticante, come afferma in questo breve memoir. Cosa vuol dire? Va spesso in chiesa, e non perché costretto, ma per “il senso di condividere qualcosa con chi mi sta accanto: tutto questo conta. Quel che ne deriva, per me, è un sentimento di pace spirituale. Andare in chiesa consola la mia anima”.
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