Lo chiamano Giuseppe l’Italiano nel carcere peruviano di Lurigancho, un luogo in cui vige la legge del più forte, in spregio ai più basilari diritti umani. Un posto in cui la corruzione è endemica e bisogna costantemente guardarsi le spalle perché, specie se ci si mostra deboli o poco pronti all’azione, si cade facilmente vittima di violenti, ladri, estorsori o assassini… Fuori dalle mura di quel carcere, nei palazzi di giustizia peruviani, la situazione non è più rosea: imputati lasciati per ore senza mangiare né bere, in condizioni igieniche discutibili, tanto che spesso arrivano in aula prostrati nel corpo e nello spirito. 17 lunghi anni trascorrerà Giuseppe nel penal de Lurigancho, imparando ben presto le migliori strategie per sopravvivere – una parola o un gesto possono fare la differenza tra la vita e la morte – e cercando allo stesso tempo, con tutte le forze e i mezzi a sua disposizione, di abbandonarlo per sempre.
Giuseppe Papia, siciliano, poco dopo la maggiore età lascia l’Italia e si trasferisce in Germania. Da qui, nel 2000, parte per il Perù dove, dopo qualche anno, viene arrestato e condotto nel carcere di Lurigancho. Da questa lunga esperienza trae ispirazione per la sua autobiografia.